IN BREVE – Il ritrovamento di un nuovo teatro antico vicino Tusa è l’ennesima conferma della ricchezza del patrimonio culturale siciliano. Un patrimonio diffuso, che potrebbe dare lustro a luoghi e Comuni in declino; ma che spesso non viene adeguatamente valorizzato.
La Sicilia sommersa continua a riemergere. L’equipe francese della Mission Archéologique Française d’Halaesa – MAFHA, che da due anni ha avviato una campagna di scavi assieme all’Università di Oxford e quella di Messina e di Palermo, è riuscita nell’impresa di scovare un teatro antico di epoca romana nell’area archeologica di Halesa, nel Comune di Tusa. Attraverso varie tecniche (lidar, tomografia elettrica, telecamere termiche), oltre ad indicazioni topografiche e naturali, è stata confermata l’esistenza del sito, di cui da anni si cercavano le tracce. Una grande trincea lunga più di 50 metri e larga 2 metri, scavata con un mezzo meccanico messo a disposizione dall’amministrazione comunale di Tusa, mostra un profilo regolare con gradini tagliati, un sedile in pietra di cavità sormontato da una fascia dritta, e nella parte inferiore, lo spazio orizzontale dell’orchestra fiancheggiato da un marciapiede. Un grande risultato dopo anni di ricerca condotta da Michela Costanzi, dell’Università di Amiens, dai geo-archeologi dell’Università dì Camerino, Fabio Pallotta, Matteo Pompei, Fabrizio Pesci e Marco Materazzi e dalla formazione francese composta da 7 professori e 13 studenti, guidata dal prof. Vincent Michel.
Il teatro di Halesa si aggiunge agli altri teatri della provincia di Messina (Taormina e Tindari) e rinvigorisce il potenziale archeologico che l’area orientale della Sicilia nasconde e che faticosamente riemerge, ricostruendo una mappa geografica della civiltà classica di cui oggi rimangono miti e leggende che affascinano ricercatori, visitatori e turisti.
Non solo teatri, ma anche altri insediamenti, meno conosciuti ai non addetti, rilevano la forte impronta della civiltà classica nell’attuale Provincia di Messina: basti pensare ai siti di Abacaenum (Tripi), Phoinix (tra Capo Alì e Capo Scaletta), Naxos, la villa romana di Patti, le terme di Bagnoli (Capo d’Orlando), Krastos e la grotta del Lauro (Alcara di Fusi e Longi), il complesso rupestre di Rocca Pizzicata (tra Roccella ValDemone, Mojo Alcantara e Randazzo), l’altopiano dell’Argimusco (tra Montalbano, Tripi e Roccella ValDemone), la villa romana di Terme Vigliatore e la città di Apollonia (San Fratello). Senza dimenticarci di Mylae (Milazzo), Zankle (Messina) e degli insediamenti eoliani.
Una folta presenza dei nostri avi che hanno reso gloriosa la nostra terra e che oggi grazie a queste scoperte, tal volta poco conosciute e valorizzate, ci regalano un’offerta turistica che potrebbe fruttare una crescita economica esponenziale offrendo al visitatore non solo una proposta culturale ma anche commerciale.
Molte aree, descritte da leggende o particolari toponomi, sono tutt’ora da individuare. Basti pensare alla città di Demona o Demenna, da cui il grande vallo che insieme a quello di Mazara e Noto, suddivise amministrativamente e topograficamente la Sicilia sin dalla dominazione musulmana. Questa città non è ancora ben individuata, sormontata da ipotesi che la vedono insediare a Monforte San Giorgio. Altro luogo ben noto alle cronache storiche è il Nauloco, dove avvenne la battaglia tra Sesto Pompeo e Ottaviano: si tratta di un tratto di mare individuato nel golfo di Milazzo, in cui 300 navi si contrastarono, e su cui alcuni studiosi stanno svolgendo delle ricerche. Altri luoghi da svelare sono l’Artemisio e il tempio greco di Diana Facellina, oggetto di svariate e tribolate ipotesi tra Milazzo, i centri collinari e marittimi sino a Villafranca, ma senza valide conferme che ne certifichino l’esistenza. Qui si sarebbe addormentato Ulisse durante la sua Odissea: nel poema Omero cita la Valle dei Buoi del Dio Sole, che si suppone essere proprio nel golfo mamertino.
La nostra terra rimane comunque un mondo sommerso negli abissi dell’arcano, dove la storia viene spesso dimenticata e calpestata, facendo a pugni con l’uomo contemporaneo e la sua avidità. Una difficile convivenza dettata non solo da inciviltà e ignoranza, ma spesso anche da una sorta di ribellione dei cittadini contro il degrado e l’abbandono del patrimonio storico-artistico da parte di chi dovrebbe tutelarlo.
Proprio l’area del Val Demone, sovrastata dai Monti di Nettuno (i Peloritani), è uno scrigno nelle sabbie mobili. Basti pensare a luoghi come San Pier Niceto, in cui resistono tracce di quartieri, chiese e siti rupestri che nascondono misteri e civiltà; o la Rometta di Giacomo Scibona, temerario archeologo che dedicò una carriera ed una vita per ritrovare l’identità perduta dell’acrocoro fortificato risalente addirittura al periodo greco, e che assunse varie denominazioni (Ibla Parva, Pisso, Erymata).
Non tutto però è perduto. Ad esempio a Monforte vi è una crescita culturale da circa 30 anni a questa parte, grazie all’impegno di associazioni e appassionati (ad esempio la Katabba) nel riscoprire la propria identità e valorizzare la storia. Il progetto più recente, Percorsi BioGrafici, è portato avanti dall’amministrazione comunale insieme a docenti, ricercatori e studenti dell’Università di Siena (tra cui Enrico Zanini ed Elisabetta Giorgi) attraverso processi di rigenerazione urbana e arte contemporanea, coordinati da Luca Guida e Dario Bitto. Un percorso che non riguarda solo il passato più remoto, ma anche le trasformazioni più drastiche e recenti del tessuto architettonico. A questo si aggiunge anche un altro finanziamento che riguarderà la valorizzazione dell’area naturalistica, paesaggistica e storico-archeologica del colle Immacolata. Tassello dopo tassello, una comunità può far rivivere e salvare il proprio territorio dalle difficoltà socio-economiche tramite la cultura e la storia; e su questo molti Comuni, in sinergia, dovrebbero puntare per salvare il salvabile del nostro immenso patrimonio.
Antonio Nastasi